La sentenza della Corte Costituzionale n.228 del 6 ottobre 2014, risolve finalmente la problematica del prelevamento in capo ai lavoratori autonomi.

Con tale sentenza, infatti, viene meno una spada di Damocle che da anni incombeva sui lavoratori autonomi e, soprattutto, sui liberi professionisti.

L’Art. 32 del D.P.R. n.600/1973, infatti, sino a tale pronunciamento, è stata sempre considerata una norma capestro che “imponeva” la c.d. presunzione di equivalenza del prelevamenti non giustificati dai conti bancari personali del professionista-lavoratore autonomo, sicché ove il contribuente, di fronte al riscontro bancario sollevato dal Fisco, non riusciva  a “giustificare” il prelevamento, provando i soggetti destinatari (in carenza di apposita indicazione nelle scritture contabili), tali operazioni venivano automaticamente considerate come ricavi o compensi e poste, quindi a base delle rettifiche e degli accertamenti.

Fortunatamente la Corte Costituzionale, con questa decisione, ha posto finalmente fine ad una “irragionevole” presunzione, ritenendo che l’esercizio di una attività professionale non possa essere equiparata automaticamente ad una qualsiasi attività imprenditoriale. La Corte, infatti, giustamente ha posto l’accento sulla diversità della “natura” dei prelevamenti bancari per un imprenditore rispetto ad un lavoratore autonomo.

L’impatto della decisione sembra essere però di più ampia portata, essendo i principi in essa contenuta talmente forti da poter essere proficuamente utilizzati anche in altre circostanze.

Tra gli aspetti principali evidenziati nella sentenza risultano particolarmente significativi i seguenti:

  • l’attività svolta dai lavoratori autonomi si caratterizza per la preminenza dell’apporto del lavoro proprio e la marginalità dell’apparato organizzativo;
  • il reddito professionale è normalmente gestito con un sistema di contabilità semplificata, con inevitabile promiscuità delle entrate e delle spese professionali e personali.

A ben vedere, i presupposti che hanno condotto alla decisione della Corte Costituzionale sembrano utilizzabili anche nel mondo delle imprese. Quanto alla marginalità dell’apparato organizzativo, è utile effettuare un parallelo con l’iter giurisprudenziale in materia Irap, dove è noto che la Corte di Cassazione ha stabilito la non assoggettabilità all’imposta anche in determinate fattispecie di reddito d’impresa, connaturate da scarsa organizzazione. In merito poi alla promiscuità delle entrate e delle spese lavorative con quelle personali, soprattutto in presenza di obblighi contabili semplificati, l’estensione del concetto espresso dalla Corte Costituzionale anche al mondo imprenditoriale è ben visibile, essendo sufficiente pensare ai contribuenti semplificati, oppure ai soci, che inevitabilmente utilizzano i propri conti per scopi personali.

Quali margini difensivi si possono quindi utilizzare?

Il primo principio inequivocabile è che non possa mai essere superato in maniera acritica il vincolo posto dall’art. 53 della Costituzione, ossia la determinazione del reale reddito del contribuente. Ad esempio, un recupero “asettico” dei prelievi effettuati dall’imprenditore o dai soci sui propri conti, senza tener conto di utilizzi familiari e senza riconoscimento di costi non può essere affatto accettato.

Altrettanto proficuo è obiettare l’assenza di specifici obblighi contabili. I contribuenti che adottano regimi semplificati o super semplificati non si distanziano dai professionisti e appare utile quanto stabilito nella sentenza n. 335/17/13 della CTR Sicilia, secondo cui è impossibile chiedere al contribuente una completa riconciliazione tra movimentazioni finanziarie dei sui conti e accadimenti lavorativi. Così si esprimono i giudici siciliani: “L’Ufficio insiste sulle rilevazioni bancarie e sull’onere della prova che incombe al contribuente per le operazioni che non trovano riscontro nella contabilità. Ma il contribuente non può essere onorato di una prova impossibile. E inoltre, nel caso in esame, il (contribuente) ha dato spiegazioni e ha esibito documenti (….) che giustificano la impossibilità di porre in essere, in assenza di una obbligatorietà di contabilità ordinaria, una ricongiunzione tra le movimentazioni bancarie e le annotazioni in contabilità”.

Si pensi ai conti dei soci: in assenza di obblighi contabili e considerato l’inevitabile utilizzo personale, se la presunzione sul prelevamento è “spropositata”, ben sarà possibile invocare le conclusioni della Corte Costituzionale e della sentenza di merito sopra richiamata.

Ed in tale direzione è sicuramente interessante la CTP di Ancona, n. 281/04/14, che seppur riferita ad un professionista, è esplicativa della casistica dei soggetti in contabilità semplificata e che peraltro riceve pagamenti prevalentemente in contanti, oltre ad utilizzare il conto per scopi personali.

L’organo giudicante ha giustamente evidenziato che l’attuale normativa non prevede specifici obblighi, non soltanto contabili, ma anche in ordine al versamento di quanto introitato. Non esistono, infatti, disposizioni secondo cui l’intero importo incassato deve essere versato oppure che stabiliscano l’obbligo di procedere ai versamenti con puntuale cadenza temporale. Non dovendo dimenticare che il contribuente persona fisica imprenditore può trattenere delle somme per le proprie esigenze, ovvero per pagare costi riferiti all’attività e dunque è normale che l’importo versato possa non corrispondere a quanto introitato. Eppure, nel caso analizzato dalla CTP di Ancona, l’Ufficio ha ipotizzato incassi a nero sostenendo che gli importi delle ricevute non coincidono mai con quelli dei versamenti, pur risalendo a ritroso fino al versamento precedente o, in mancanza, nei dieci giorni precedenti. La CTP ha sottolineato invece come “….risulta assurdo pretendere, come fa l’ufficio, di trovare un preciso riscontro fra il versato e l’incassato, quando quest’ultimo risulta ampiamente superiore al primo. Basterà quindi considerare che il ricorrente, operando con clientela privata, incassa (in parte) in contanti, per cui deciderà di trattenere quanto necessario per le proprie esigenze personali e famigliari, senza effettuare il passaggio nel conto corrente. Se poi, a posteriori, le esigenze saranno risultate sovrastimate o posticipate, egli si ritroverà con un’eccedenza di contante che andrà a sommarsi agli incassi nel frattempo effettuati. Per dare prova di ciò occorre che venisse imposto al contribuente la tenuta del giornale di cassa non solo per le operazioni commerciali ma anche per quelle personali e famigliari: il che non risulta ancora essere stato attuato dalla normativa tributaria!”.

In definitiva, la sentenza della Corte Costituzionale n.228/2014 rappresenta un importante spunto di riflessione per minare la validità dell’avviso di accertamento ogni qualvolta, a prescindere dall’essere il contribuente “professionista”, si sia, da un lato, in presenza di conti correnti promiscui con utilizzi personali, dall’altro in assenza di obblighi contabili o di altro genere.

I passi da seguire sono:

  • dimostrare la violazione dell’articolo 53 della Costituzione;
  • evidenziare che in assenza di obblighi contabili si rischia di attribuire al contribuente una “prova diabolica” (sentenza n. 335/17/13 della CTR Sicilia);
  • sostenere che la persona fisica naturalmente trattiene importi per i propri scopi personali, non essendo ciò vietato (sentenza n. 281/04/14 della CTP di Ancona).


Filippo Radice (filipporadice@hotmail.com)

Rag. Commercialista e Revisore contabile in Monza Brianza

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