La gestione e pianificazione del patrimonio è un aspetto sul quale nell’odierna economia sia privati che aziende focalizzano la propria attenzione al fine di gestire al meglio le proprie risorse valutando anche, ove possibile, eventuali vantaggi fiscali. 

In tale contesto è dunque evidente l’importanza fondamentale di conoscere il quadro normativo ed altresì la giurisprudenza e la prassi attualmente vigenti.

Il trust – istituto di origine anglosassone – è sicuramente uno dei più validi strumenti di pianificazione patrimoniale e fiscale posto che consente ad un soggetto di separare dal proprio patrimonio determinati beni allo scopo di perseguire specifici interessi a favore di determinati beneficiari o al fine di raggiungere un determinato scopo, affidando la gestione del bene e/o dei beni conferiti in trust ad una persona denominata trustee o, nei casi più complessi, ad una società esperta nel settore denominata trust company.

Dal punto di vista civilistico il trust ha natura di atto a titolo gratuito – avente la funzione di costituire un patrimonio separato – pacificamente riconosciuto dal nostro ordinamento giuridico quale istituto tipico in quanto la valutazione (astratta) della meritevolezza di tutela ex art. 1322 c.c. è stata compiuta, una volta per tutte, dal legislatore: la Legge 16 ottobre 1989 n. 364 di Ratifica ed esecuzione della convenzione sulla legge applicabile ai trusts e sul loro riconoscimento adottata a L’Aja il 1 luglio 1985, infatti, riconoscendo piena validità alla citata convenzione dell’Aja, ha dato cittadinanza nel nostro ordinamento all’istituto del trust, per cui non è necessario che il giudice provveda di volta in volta a valutare se il singolo contratto risponda al giudizio di meritevolezza di interessi previsto dal citato art. 1322 c.c. (Cfr. Cassazione civile, sentenza n. 9637/2018).

Chiarita la definizione di trust e il suo inquadramento giuridico va evidenziato che tra le sue diverse modalità di istituzione il trust autodichiarato è sicuramente la modalità più semplice, poiché il disponente non trasferisce i beni ad un terzo gestore ma si limita ad imporvi un c.d. “vincolo di destinazione” che viene appunto definito “vincolo di destinazione autodichiarato”: in sostanza nel trust autodichiarato disponente e trustee coincidono poiché il disponente nomina se stesso quale trustee imponendo sui suoi beni un vincolo di destinazione e può essere anche uno dei beneficiari del medesimo trust purchè non l’unico, posto che se fosse automaticamente anche l’unico beneficiario si verificherebbe una palese distorsione del sistema dovuta alla coincidenza in capo alla stessa persona del soggetto debitore delle prestazioni patrimoniali in favore del beneficiario (il trustee) e del soggetto creditore delle medesime prestazioni (il beneficiario).

Il principale vantaggio conseguente al predetto vincolo di destinazione autodichiarato risiede nel fatto che lo stesso disponente potrà dunque gestire i beni oggetto di trust e profittare al tempo stesso del meccanismo di protezione patrimoniale prodotto dal trust medesimo, meccanismo in virtù del quale creditori personali non potranno aggredire in alcun modo i beni destinati in trust e che rappresenta con tutta evidenza uno strumento di segregazione patrimoniale che consente di “proteggere” il proprio patrimonio dalla statuizione di cui all’art. 2740 c.c. che prevede che il debitore debba rispondere “dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri”.

In quest’ottica può ad esempio essere menzionato a titolo meramente esemplificativo e non esaustivo – posto che esistono diverse fattispecie applicative di trust autodichiarato – il c.d. “trust liquidatorio autodichiarato” tramite il quale il disponente conferisce in trust un determinato immobile apponendovi un vincolo di destinazione allo scopo di provvedere lui stesso, mediante autonoma gestione, alla liquidazione dell’immobile medesimo volta a soddisfare con il ricavato i propri creditori e riservandosi altresì la possibilità di beneficiare dell’eventuale residuo: è evidente che questa rappresenta una soluzione ottimale non solo per il debitore ma anche per i suoi creditori, posto che con tale modus operandi è possibile vendere il bene al prezzo di mercato e non al prezzo sicuramente ribassato da un’asta giudiziaria che troverebbe invece luogo qualora il medesimo immobile fosse  venduto a seguito di azione esecutiva e dunque di pignoramento da parte dei creditori procedenti.

E’ importante però evidenziare come il nostro ordinamento giuridico da un lato fornisca un abile strumento di gestione e pianificazione patrimoniale – sia a privati che ad aziende – ma dall’altro lato, in contropartita, fornisca anche degli strumenti volti a difendersi da eventuali usi fraudolenti e/o elusivi del predetto istituto, pertanto nel momento in cui si sceglie di istituire un trust è bene che il disponente non abbia in mente alcun intento fraudolento nei confronti di eventuali creditori e/o del fisco che potrebbero portare a lunghi ed incerti contenziosi giudiziari.

Qualora infatti un debitore ponga in essere atti dispositivi del proprio patrimonio con lo scopo di sottrarsi alla pretesa creditoria il codice civile consente al creditore danneggiato di agire in revocatoria ex art. 2901 c.c. in virtù del quale “il creditore può domandare che siano dichiarati inefficaci nel propri confronti gli atti di disposizione del patrimonio con i quali il debitore rechi pregiudizio alle sue ragioni quando (…) il debitore conoscesse il pregiudizio che l’atto arrecava alle ragioni del credito o, trattandosi di atto anteriore al sorgere del credito, l’atto fosse dolosamente preordinato al fine di pregiudicarne il soddisfacimento (…)”.

Altro strumento alternativo all’azione revocatoria posto a tutela dei creditori danneggiati da atti dispositivi del patrimonio effettuati dai propri debitori è l’art. 2929-bis c.c. pacificamente applicabile anche nei casi di trust autodichiarato. Tale articolo infatti introdotto dal decreto legge n. 83/2015 – in G.U. n. 147 del 27 giugno 2015 – prevede testualmente che “1.Il creditore che sia pregiudicato da un atto del debitore, di costituzione di vincolo di indisponibilità o di alienazione, che ha per oggetto beni immobili o mobili iscritti in pubblici registri, compiuto a titolo gratuito successivamente al sorgere del credito, può procedere, munito di titolo esecutivo, a esecuzione forzata, ancorché non abbia preventivamente ottenuto sentenza dichiarativa di inefficacia, se trascrive il pignoramento nel termine di un anno dalla data in cui l’atto è stato trascritto. La disposizione di cui al presente comma si applica anche al creditore anteriore che, entro un anno dalla trascrizione dell’atto pregiudizievole, interviene nell’esecuzione da altri promossa. 2. Quando il bene, per effetto o in conseguenza dell’atto, è stato trasferito a un terzo, il creditore promuove l’azione esecutiva nelle forme dell’espropriazione contro il terzo proprietario ed è preferito ai creditori personali di costui nella distribuzione del ricavato. Se con l’atto è stato riservato o costituito alcuno dei diritti di cui al primo comma dell’articolo 2812 – rubricato “diritti costituiti sulla cosa ipotecata” – il creditore pignora la cosa come libera nei confronti del proprietario. Tali diritti si estinguono con la vendita del bene e i terzi titolari sono ammessi a far valere le loro ragioni sul ricavato, con preferenza rispetto ai creditori cui i diritti sono opponibili. 3. Il debitore, il terzo assoggettato a espropriazione e ogni altro interessato alla conservazione del vincolo possono proporre le opposizioni all’esecuzione di cui al titolo V del libro terzo del codice di procedura civile quando contestano la sussistenza dei presupposti di cui al primo comma o che l’atto abbia arrecato pregiudizio alle ragioni del creditore o che il debitore abbia avuto conoscenza del pregiudizio arrecato. 4. L’azione esecutiva di cui al presente articolo non può esercitarsi in pregiudizio dei diritti acquistati a titolo oneroso dall’avente causa del contraente immediato, salvi gli effetti della trascrizione del pignoramento”.

Oltre al vantaggio della segregazione patrimoniale – purchè nei limiti e con il rispetto delle condizioni sopra prospettate in termini di assenza di finalità elusive – il trust autodichiarato consente anche di beneficiare di diversi vantaggi fiscali.

In particolare la recente giurisprudenza di legittimità – a seguito di numerosi contrasti interpretativi – è giunta ad affermare che la costituzione di beni in trust, seppur trattandosi dal punto di vista civilistico di atto a titolo gratuito, non sconta l’imposta di donazione in quanto “la costituzione del vincolo di destinazione di cui al D.L. n. 262 del 2006art. 2, comma 47, conv. in L. n. 286 del 2006, non costituisce autonomo presupposto impositivo, essendo necessario un effettivo trasferimento di ricchezza mediante attribuzione patrimoniale stabile e non meramente strumentale. Conseguentemente è stato ritenuto che nel caso di trust cd. autodichiarato, ove disponente e trustee coincidano, non ricorre il presupposto del reale arricchimento mediante effettivo trasferimento di beni e diritti, in quanto il disponente beneficerà i suoi discendenti o se stesso, se ancora in vita, al momento della scadenza (Cass. n. 8082 del 23/04/2020n. 16699 del 21/06/2019n. 19167 del 17/07/2019n. 31445 del 05/12/2018n. 21614 del 26/10/2016)” (Cfr. Ex Multis: Cass. civile, sentenza n. 17563/2021; Cass. civile, sentenza n. 11099/2021 e Cass. civile, sentenza n. 16688/2021).

In sostanza dunque è stata confermata la tesi già prospettata dalla medesima Corte di Cassazione con la sentenza n. 32392/2019 nella quale veniva sancito che “in tema di trust, l’imposta sulle successioni e donazioni, prevista dal D.L. n. 262 del 2006art. 2, comma 47, (conv. con modif. dalla L. n. 286 del 2006) anche per i vincoli di destinazione, è dovuta non al momento della costituzione dell’atto istitutivo o di dotazione patrimoniale, fiscalmente neutri in quanto meramente attuativi degli scopi di segregazione ed apposizione del vincolo, bensì in seguito all’eventuale trasferimento finale del bene al beneficiario, in quanto solo quest’ultimo costituisce un effettivo indice di ricchezza ai sensi dell’art. 53 Cost. (Cass. n. 22754 del 2019, 19167 del 2019 e 16699 del 2019)”.

Oltre a ciò è stato anche ritenuto che il trust non sia nemmeno soggetto passivo di imposta di registro o di iva in quanto l’unica ipotesi in cui è prevista la soggettività passiva tributaria del trust è quella di cui all’art. 73 T.U.I.R. in tema di IRES (Cfr. Cass. civile, sentenza n. 17563/2021), con l’ulteriore specificazione sul punto in merito al fatto che “Il riconoscimento, ex art. 73, co.1, del TUIR del "trust" quale soggetto passivo Ires (nei soli casi in cui dall’atto istitutivo ovvero da altri documenti anche redatti in epoca successiva, manchi del tutto l’indicazione dei beneficiari), benchè privo di soggettività giuridica di tipo civilistico, non comporta una sua capacità generalizzata ad essere soggetto passivo anche di altri tributi, atteso che tale eventuale applicazione estensiva contrasterebbe con il divieto, posto dall’art. 14 delle preleggi, di interpretazione analogica delle norme eccezionali, qual è quella che, a fini specifici e determinati dallo stesso legislatore, riconosce una limitata forma di soggettività, ai soli fini tributari, ad una organizzazione priva di personalità giuridica” (Cfr. Cass. civile, sentenza n. 3986/2021).

Infine, seguendo il medesimo filone interpretativo, la Corte di Cassazione ha altresì affermato che anche “in tema di imposte ipotecarie e catastali, l’assenza di personalità giuridica del "trust", il cui effetto proprio è quello, ex art. 2 della Convenzione dell’Aja del 1° luglio 1985, di istituire un patrimonio destinato ad un fine prestabilito, esclude che esso possa ritenersi titolare di diritti e tanto meno essere considerato soggetto passivo di imposta, trattandosi di un insieme di beni e rapporti destinati ad un fine determinato e formalmente intestati al "trustee" (Cfr. Cass. civile, sentenza n. 3986/2021 ed ancora Cass. civile, sentenza n. 11099/2021 nella quale viene appunto ribadito – richiamando la sentenza della medesima Corte in data 23 aprile 2020 n. 8082 – che “In tema di imposta di donazione, registro ed ipocatastale, la costituzione del vincolo di destinazione di cui all’art. 2, comma 47 del D.L. 3 ottobre 2006, n. 262 D.L. 03/10/2006, n. 262, convertito in L. 24 novembre 2006 n. 286, non costituisce autonomo presupposto impositivo, essendo necessario un effettivo trasferimento di ricchezza mediante attribuzione patrimoniale stabile e non meramente strumentale”).

In considerazione di quanto precede è dunque evidente come l’istituzione del trust autodichiarato può essere considerato un valido, duttile, efficace e soprattutto vantaggioso strumento di gestione e pianificazione patrimoniale purchè scevro da intenti elusivi che possano destare sospetto alla massa creditoria e/o al fisco e dunque dare adito a controversie da risolversi nelle aule dei tribunali.

Sul punto merita tra l’altro di essere ulteriormente evidenziato come la coincidenza fra il disponente ed il trustee – tipica come visto del trust autodichiarato – possa far presumere la sussistenza del c.d. “sham trust”, il quale può verificarsi quando il  disponente mantiene il controllo dei beni conferiti oppure quando ne dispone come cosa propria: ebbene in tali circostanze il trust rischia di essere considerato illegittimo e nello specifico nullo poiché ove risulti che la perdita del controllo dei beni da parte del disponente sia solo apparente non si produce l’effetto segregativo che lo caratterizza (Cfr. Cass. civile, sentenza n. 46137/2014), con tutte le conseguenze spiacevoli che ne derivano sia dal punto di vista civilistico che dal punto di vista fiscale dato che a seguito della accertata nullità non solo i beni conferiti in trust sarebbero pacificamente aggredibili da parte dei creditori danneggiati ma il trust medesimo verrebbe altresì disconosciuto dall’Agenzia delle Entrate con tutti i recuperi di imposta che si produrrebbero a cascata qualora non fossero ancora decorsi i termini di prescrizione ex lege previsti per la notifica degli atti impositivi, oltre ad eventuali profili penali che potrebbero ravvisarsi ai sensi dell’art. 11 del D. Lgs. n. 74/2000.

La Corte di Cassazione infatti con la sentenza n. 20862/2018 Sezione III penale è giunta ad esempio ad affermare che il trust “autodichiarato” costituito dal debitore subito dopo la notifica di cartelle esattoriali può integrare gli estremi del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, poiché in tali circostanze lo strumento del trust rappresenterebbe un mero schema volto a realizzare una segregazione del proprio patrimonio al precipuo scopo di eludere la tassazione fiscale: si tratterebbe sostanzialmente di un c.d. “sham trust” che date le finalità elusive presupposte assume rilevanza in termini di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte alla luce del sopra menzionato art. 11 del D. Lgs. n. 74/2000. 

Ciò premesso però occorre rilevare che dalla mera coincidenza fra soggetto disponente e soggetto trustee non può desumersi automaticamente la sussistenza di uno “sham trust” e ciò in quanto in primis se così fosse è evidente che il trust autodichiarato non avrebbe nemmeno ragione di esistere e di essere disciplinato quando invece quest’ultimo è, come visto, pacificamente riconosciuto dal nostro ordinamento giuridico purchè operi correttamente senza intenti elusivi – i quali tra l’altro devono essere provati dalla Amministrazione finanziaria o da chi intende far valere l’elusione o la frode medesima – ed in secondo luogo non può non osservarsi come la sussistenza di uno “sham trust” è ravvisabile anche al di fuori dello schema del trust autodichiarato, ovvero quando vi sia un trasferimento di beni ad un terzo gestore denominato trustee diverso dal disponente.

Conclusivamente è dunque doveroso rilevare come il trust autodichiarato sia una efficace “arma” di gestione e pianificazione patrimoniale ma allo stesso tempo da maneggiare con cura e soprattutto con l’assistenza e la consulenza di professionisti esperti nel settore, posto che come sopra argomentato se si sconfina dai “binari” e dai “paletti” ex lege prefissati al fine del suo valido utilizzo si rischia di dover subire spiacevoli conseguenze civili, fiscali e a volte anche penali.


Avv. Antonella Florio

www.avvocatoantonellaflorio.it



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