Le nuove stime della Commissione Europea (11 novembre 2021) sulla crescita dell’Italia sono molto positive: il P.I.L. è visto in rialzo del 6,2 per cento nel 2021 e del 4,3 per cento nel 2022 e l’inflazione non dovrebbe superare di molto il 2 per cento. Il debito pubblico, vera e propria spina nel fianco della finanza pubblica italiana, dovrebbe ridursi dal 155,6 per cento del 2020 al 151 per cento del 2023.

Lo scorso 19 novembre la Banca d’Italia ha pubblicato il rapporto n. 2 - 2021 sulla stabilità finanziaria. Ciò che emerge chiaramente dall’analisi di via Nazionale è che la spinta propulsiva sull’economia indotta dalle politiche espansive delle autorità monetarie e fiscali, in aggiunta gli effetti delle campagne di vaccinazione, non si è ancora esaurita. Tuttavia appare anche evidente come negli ultimi mesi l’economia a livello globale abbia subito un certo rallentamento a causa, soprattutto, della rigidità dell’offerta ed all’aumento dei prezzi delle materie prime e dei prodotti energetici. E però, “in base a quanto attualmente valutabile”, Bankitalia ritiene che “gli effetti sulle aspettative di inflazione a lungo termine sono stati finora di lieve entità”. 

Intanto la fiducia dei mercati finanziari sul mantenimento dell’attuale politica monetaria della BCE, in considerazione delle crescenti spinte inflazionistiche, comincia a vacillare se è vero che gli spread di alcuni Paesi sono tornati ad aumentare. Ed è proprio Bankitalia a registrare il marcato aumento dello spread in Paesi dell’area Euro tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre “in connessione con i timori di un’eventuale riduzione dell’accomodamento monetario”.

Le salvifiche politiche espansive delle banche centrali sembrerebbero dunque minacciate dalle crescenti spinte inflazionistiche. Ed in effetti cosa accadrebbe se le banche centrali, che fino ad oggi stanno attuando politiche ultra espansive (Quantitative easing, tassi d’interesse bassi o addirittura nulli) dovessero ritenere (o magari prendere atto) che le spinte inflazionistiche registrate in questi mesi non sono un fenomeno transitorio ma, al contrario, un fenomeno duraturo? 

Partiamo da un dato: per il prossimo mese di marzo (2022) è prevista la fine del programma di acquisto di titoli (Pandemic Emergency Purchase Programme – Pepp) della BCE: ciò comporterà un aumento dei tassi di interesse?

Tali quesiti non sono di poco momento. Un eventuale aumento dei tassi di interesse da parte della BCE avrebbe forti ripercussioni sul debito pubblico italiano posto che la sostenibilità del debito pubblico è influenzata in misura significativa dagli interventi della Banca Centrale sul mercato dei titoli di stato (Osservatorio Monetario 3 -2021, ASSBB Università Cattolica del Sacro Cuore).

In realtà, non esiste alcun automatismo tra la fine del Quantitative easing da parte della BCE e l’aumento dei tassi d’interesse. Ed anzi “un eventuale aumento dei tassi potrà avvenire in presenza di un rinnovo dello stock di titoli nel portafoglio della Bce (roll-over) anche per un prolungato periodo di tempo” (così Angelo Baglioni, “Se torna l’inflazione, la BCE cambia politica”, lavoce.info, 19.11.2021).

In Italia, secondo il già citato rapporto n. 2 - 2021 dell’Istituto di Via Nazionale, i rischi per la stabilità finanziaria sono moderati. Sono segnalate però vulnerabilità di medio termine dovute principalmente alla possibilità che la crescita economica, che attualmente è giudicata solida, perda di intensità. Bankitalia evidenzia come i programmi di acquisto di titoli pubblici e privati dell’Eurosistema contribuiscano a mantenere distese le condizioni di finanziamento sui mercati, anche nel comparto dei titoli di Stato; evidenzia come gli spread sulle obbligazioni private rimangano su livelli storicamente bassi, sia nel segmento investment grade sia in quello high yield; evidenzia infine come la progressiva riduzione dei tassi di insolvenza delle imprese, resa possibile dal buon andamento dell’economia, attenui il rischio di bruschi cali dei corsi obbligazionari.

A parere di chi scrive, se anche l’inflazione sarà più lunga di quanto sembrerebbero ipotizzare le banche centrali e gli altri organismi internazionali e se anche la crescita economica sarà meno ampia di quella stimata dalla Commissione Europea, appare difficile pronosticare che la Banca Centrale Europea torni a vendere titoli di stato sul mercato. Del resto, già la politica monetaria della Federal Reserve Bank (new normal) continua a puntare su un’ampia offerta di base monetaria e quindi a mantenere un vasto portafoglio-titoli. Conseguentemente, un cauto ottimismo sulla persistenza delle attuali politiche monetarie della BCE e quindi sulla possibilità che le attuali politiche governative italiane di finanza pubblica, legate agli attuali tassi di interesse molto bassi, possano essere ancora mantenute non sembra, ad oggi, fuori luogo. 

Avv. Girolamo Lazoppina

Articolo originariamente pubblicato su: www.studiolegalelazoppina.com

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