La morte di un familiare o di un prossimo congiunto, oltre ad essere un evento fonte di grande sofferenza a livello psichico ed emotivo, può essere ulteriore fonte di pregiudizio economico per i componenti del nucleo familiare per i quali il defunto rappresentava con il proprio lavoro l’unica o la prevalente fonte di reddito e di sostentamento.

Ne consegue pertanto che nel caso in cui la predetta morte sia stata cagionata da un fatto illecito di un terzo i familiari sono legittimati a richiedere a quest’ultimo il ristoro dei danni patrimoniali patiti in conseguenza del decesso del proprio caro, ponendosi in concreto un evidente problema di individuazione del quantum e delle connesse voci di danno risarcibili.

Trattasi di una tematica che per anni ha rappresentato un fertile terreno di intensi ed a volte anche antitetici dibattiti sia in dottrina che in giurisprudenza soprattutto nel momento in cui l’illecito del terzo produce allo stesso tempo un danno ed un vantaggio, rendendo necessario – anche in una logica equitativa e di giustizia del caso concreto – che la quantificazione del danno da liquidare sia il risultato dell’applicazione del cosiddetto principio della “compensatio lucri cum damno”, ovvero del principio in virtù del quale il ristoro del pregiudizio patito tende a riportare il patrimonio del danneggiato e/o dei danneggiati nel medesimo stato in cui esso si trovava prima del verificarsi dell’evento dannoso.

Ebbene in tale frangente sembra addirittura paradossale che da un episodio così drammatico come il decesso di un proprio caro per fatto illecito altrui possano scaturire dei “vantaggi” meritevoli di essere detratti e quindi scorporati da un eventuale risarcimento danni, eppure il problema si è posto per quanto concerne la corresponsione della pensione di reversibilità: ci si è infatti domandato se nel caso in cui la famiglia del defunto sia già destinataria del predetto beneficio previdenziale possa o meno sussistere e coesistere cumulativamente un pieno, autonomo ed integrale diritto al risarcimento del danno patrimoniale da lucro cessante azionabile nei confronti dell’autore dell’illecito che ne ha cagionato la morte e di conseguenza il venir meno di una fondamentale risorsa economica per la famiglia stessa.

La diatriba tra la tesi favorevole e la tesi contraria alla sussistenza congiunta della predetta pensione di reversibilità e della autonoma ed integrale pretesa risarcitoria in punto danni patrimoniali sopra prospettata è stata definitivamente sopita dalla Suprema Corte di Cassazione focalizzando l’attenzione sulla funzione concreta svolta dal beneficio collaterale di cui si ha già diritto a seguito dell’evento illecito occorso.

La Corte ha infatti sancito che se il beneficio collaterale tende alla reintegrazione-riparazione del danno subito allora se ne deve necessariamente tenere conto in termini di eventuale scomputo dalle ulteriori pretese risarcitorie avanzate verso l’autore dell’illecito medesimo, mentre qualora il beneficio collaterale abbia – come nel caso della pensione di reversibilità – una causa giustificatrice diversa dal mero ristoro patrimoniale seppur occasionata dallo stesso fatto illecito allora ben potrà coesistere con le autonome ed integrali pretese risarcitorie a titolo di danno patrimoniale da lucro cessante nei confronti del responsabile della morte del proprio congiunto e dunque del connesso depauperamento delle finanze familiari.

Nella sentenza n. 2177/2021 gli Ermellini, analizzando il caso di un decesso per sinistro stradale e del risarcimento per danni patrimoniali contestualmente richiesto da moglie e figli del deceduto, hanno dunque sconfessato le tesi delle difese avversarie – che negavano il diritto risarcitorio dei familiari della vittima attribuendo rilevanza alla pensione di reversibilità pari al 60% del reddito del defunto di cui i medesimi beneficiavano – e ha espressamente sancito che non può operare nel caso concreto il principio della compensatio lucri cum damno in quanto tale principio trova applicazione solo quando sia il pregiudizio che l’incremento patrimoniale siano causati direttamente ed immediatamente dal fatto illecito, ipotesi non ricorrente con riferimento alla percezione della pensione di reversibilità poichè quest’ultima è ex legericonosciuta in presenza di determinati presupposti normativamente disciplinati e non deriva dunque geneticamente dal fatto illecito essendo dallo stesso solo meramente occasionato.

Tale sentenza ripete pedissequamente il precedente orientamento della medesima Corte di Cassazione a Sezioni Unite già pronunciato con sentenza n. 12564/2018, ove fu infatti affermato che dal risarcimento del danno patrimoniale patito dai familiari di persona deceduta per colpa altrui non deve essere detratto il valore capitale della pensione di reversibilità accordata dall’Inps al familiare superstite – e di cui ovviamente ne beneficia di conseguenza l’intero nucleo familiare convivente – in conseguenza della morte del congiunto, poiché trattasi di una forma di tutela previdenziale connessa ad un peculiare fondamento solidaristico e “non geneticamente connotata dalla finalità di rimuovere le conseguenze prodottesi nel patrimonio dei danneggiati per effetto dell’illecito del terzo”.

Trattasi di un principio di diritto pienamente condivisibile, posto che ragionando diversamente si andrebbe di fatto ad avvantaggiare – con evidente effetto distorsivo – l’autore dell’illecito dato che il beneficio previdenziale ex lege accordato ai familiari della vittima legittimerebbe in concreto una sorta di “sconto” ingiustificato a favore dello stesso danneggiante in relazione al quantum di risarcimento che il medesimo è tenuto a corrispondere ai congiunti del defunto a compensazione del nocumento patrimoniale a questi ultimi cagionato con la propria condotta.


Avv. Antonella Florio

www.avvocatoantonellaflorio.it

(Foro di Milano)



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